Sinossi
Una donna enigmatica. Un uomo affascinato. Una verità che brucia sotto la superficie.
Luisa è elegante, sfuggente, affilata come la lama di un pensiero che non lascia scampo. In un mondo che sembra incapace di contenerla, si muove con grazia e freddezza, sfiorando la vita degli altri senza mai appartenere davvero a nessuno.
L’incontro con Alessandro, un uomo diviso tra desiderio e timore, accende una miccia silenziosa. Lui la osserva, la insegue, la desidera… ma qualcosa non torna. I gesti di Luisa, le sue parole misurate, i silenzi densi di significato sembrano costruire una rete sottile e inestricabile. Chi è davvero questa donna? Una vittima del passato o una predatrice consapevole?
Attraverso un racconto intimo, teso e ricco di sfumature psicologiche, Il silenzio della mantide svela i confini fragili tra amore, possesso e manipolazione. Un romanzo che s’insinua sotto la pelle e lascia il lettore con una domanda inquietante: quanto conosciamo davvero chi ci sta accanto?
Anteprima
PROLOGO
Giaceva immobile sul letto d’acciaio dell’obitorio, avvolta da un silenzio glaciale che sembrava impregnare ogni angolo della stanza. La luce fredda dei neon proiettava ombre nette sul suo volto, accentuando il pallore innaturale della pelle, tesa e cerulea, dove sottili vene violacee affioravano appena sotto la superficie.
Le palpebre chiuse celavano occhi che non si sarebbero più aperti, mentre le ciglia rade lasciavano solo un’ombra impercettibile sulle guance. Le labbra erano appena dischiuse, smorte, i contorni segnati da un alone scuro che il freddo della morte aveva accentuato. Un livido sfumato le attraversava la tempia sinistra, mentre lungo il collo iniziavano a comparire le macchie del livor mortis, segno inconfondibile del tempo che avanzava oltre la vita.
I capelli, cortissimi, lasciavano scoperta la linea della testa, seguendo la curva del cranio con la loro uniformità spezzata solo da qualche ciuffo ribelle. Non c’era nulla che potesse celare la vulnerabilità di quel corpo inerme. Il lenzuolo bianco, tirato fino al petto, delineava appena le forme rigide della salma. Le braccia giacevano lungo i fianchi, le mani leggermente contratte, come se, nell’ultimo spasmo di vita, avessero tentato invano di trattenere qualcosa.
Attorno a lei, l’obitorio era immerso in un silenzio pesante, interrotto solo dal ronzio continuo dei neon e dal ticchettio regolare dell’orologio sulla parete. L’aria era densa di freddo e di disinfettante, impregnata di un’assenza palpabile. Il metallo del tavolo su cui riposava conservava l’eco di un gelo definitivo, mentre il lenzuolo che la copriva sembrava l’unico confine tra il corpo e il vuoto che lo circondava.
Il suo viso conservava un’espressione neutra, quasi serena, come se la morte l’avesse colta in un attimo di quiete. Eppure, nel silenzio dell’obitorio, ogni dettaglio raccontava una storia ormai conclusa: una piccola cicatrice sulla tempia, un livido sbiadito sul collo, le unghie smaltate di un rosso ormai spento.
Le pareti spoglie e l’eco lontano di passi nei corridoi accentuavano la solitudine di quel momento. Non c’era più dolore, né paura, solo l’attesa silenziosa di un ultimo riconoscimento, di un nome sussurrato a bassa voce prima che la vita chiudesse definitivamente il sipario.
Il medico legale aspettava, seduto accanto al tavolo degli strumenti. L’orologio sulla parete scandiva il tempo con ticchettii regolari, mentre lui consultava ancora una volta il fascicolo della donna. L’autopsia non poteva iniziare finché un familiare non fosse arrivato per il riconoscimento. Era una procedura necessaria, ma anche un momento carico di pesantezza, di emozioni trattenute nell’aria densa dell’obitorio.
Un rumore di passi esitanti riecheggiò, infine, nel corridoio, interrompendo per un istante il silenzio pesante. Il medico legale sollevò lo sguardo dall’incartamento mentre la porta si apriva con un lieve cigolio.
Sulla soglia, una donna esitava, le mani strette attorno alla tracolla della borsa, le dita contratte in un gesto di tensione trattenuta. Aveva il volto segnato dalla stanchezza e dal dolore, gli occhi arrossati che cercavano di aggrapparsi a qualcosa di concreto per non cedere del tutto.
«Signora…» disse il medico con un tono che voleva essere rassicurante ma che rimaneva inevitabilmente freddo. «Se vuole avvicinarsi…»
Lei annuì appena e si mosse con passi lenti, come se ogni centimetro che la separava dal corpo fosse un macigno da sollevare. Il medico abbassò il lenzuolo con un gesto misurato, scoprendo il volto della donna sul lettino.
La donna trattenne il respiro. Il mondo sembrò fermarsi per un attimo, mentre i suoi occhi percorrevano i lineamenti di una persona che aveva amato per tutta la vita e che ora giaceva immobile, estranea nella rigidità della morte.
Un tremito le percorse le labbra. «È lei…» sussurrò infine, con un filo di voce.
Il medico annuì, coprendo nuovamente il viso con il lenzuolo. «Mi dispiace.»
La donna abbassò lo sguardo, stringendosi le braccia attorno al corpo, come per tenere insieme i pezzi di un dolore che rischiava di farla crollare.
«Possiamo iniziare?» chiese il medico dopo qualche secondo di silenzio.
Lei esitò, poi fece un lento cenno di assenso.
L’attesa era finita. Il sipario era definitivamente calato.
Il medico legale si lavò le mani con cura prima di indossare i guanti in lattice. Il rumore del materiale che si tendeva attorno alle dita spezzò il silenzio opprimente dell’obitorio. Accanto a lui, l’assistente preparava gli strumenti, disponendoli con gesti meccanici e precisi sul vassoio d’acciaio.
Il corpo della donna giaceva immobile sotto la luce fredda della sala. Il medico abbassò di nuovo il lenzuolo, scoprendola completamente. La pelle appariva cerea, priva di calore, le braccia rigide lungo i fianchi, il torace immobile nella quiete irreversibile della morte.
Con un bisturi affilato, il medico praticò il classico taglio a Y, un’incisione che partiva dalle clavicole, scendeva lungo lo sterno e si apriva fino all’addome. La lama scivolò con facilità attraverso la pelle e il tessuto sottostante, esponendo la gabbia toracica. Il sangue, ormai coagulato, non fluì, lasciando solo un’ombra scura lungo i margini del taglio.
Con un movimento deciso, il medico utilizzò una sega chirurgica per aprire lo sterno. L’eco del metallo contro l’osso rimbombò nella stanza, mentre l’assistente raccoglieva con precisione ogni residuo. Con il torace aperto, gli organi interni si rivelarono alla luce artificiale: i polmoni immobili, il cuore fermo nel suo silenzio definitivo.
Uno dopo l’altro, gli organi vennero estratti con metodo e posizionati sulla bilancia per essere pesati. Il medico incise il fegato, osservando il colore e la consistenza del tessuto, poi passò ai polmoni, cercando segni di lesioni o anomalie. Ogni dettaglio veniva annotato, ogni osservazione registrata con precisione.
Infine, il cranio. Con un bisturi, il medico praticò un’incisione dietro la testa, separando il cuoio capelluto e ripiegandolo in avanti. Poi, con una sega oscillante, aprì il cranio, esponendo il cervello. Lo sollevò con attenzione, osservandone la struttura prima di immergerlo in una soluzione conservante per ulteriori analisi.
Quando tutti gli esami furono completati, gli organi vennero riposti nel corpo, la cavità toracica ricucita con lunghi punti neri che segnavano la pelle come una cicatrice silenziosa. Il lenzuolo tornò a coprire il corpo, lasciando solo l’eco degli strumenti e il fruscio della penna che registrava l’ultima annotazione sul referto.
L’autopsia era conclusa. Ora, solo il rapporto avrebbe dato le risposte che i vivi cercavano.
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