Sono nata a Modena, città in cui risiedo. Mi sono laureata in Lingue e attualmente lavoro come educatrice presso una scuola elementare, mentre studio per conseguire una seconda laurea in Scienze dell’Educazione.
Il mio pseudonimo è Gioconda Joplin. Questo nome mi è venuto in mente guardando un poster in cui figurava la Gioconda con gli occhialini tondi e colorati di Janis Joplin. Pensai all’assurda possibilità che alla Gioconda sarebbero davvero potuti piacere e che li avrebbe indossati volentieri.
Pensai anche all’assurda possibilità di diventare scrittrice, dicendomi allora che avrei indossato quel nome con la stessa fierezza e noncuranza con cui magari la Gioconda, nel 1500, avrebbe portato quegli occhiali bizzarri.
Quando scrivo non ho alcun intento se non quello di divertirmi. E di divertire. Questa libertà – il diritto di creare senza uno scopo o un progetto – è la fortuna dei bambini, e me la tengo ben stretta. Se chiedo a uno dei miei alunni perché sta buttando giù una storia, lui mi risponderà due cose, entrambe vere: non lo so, perché mi piace.
Questa è anche la mia risposta, a trentaquattro anni.

Preservare il più possibile questo piacere spontaneo e genuino è la mia priorità. Forse è per questo motivo, paradossalmente, che leggo poco. Questa sorta di eremitaggio narrativo mi consente di rimanere più vicina agli autori che ammiro di più, ovvero i bambini, i semicolti e gli analfabeti: coloro che prendono in mano una penna perché animati da una fantasia personale, atavica e non dirottata.
Se i libri mi appaiono come sabbie mobili, ciò non accade per le poesie e per i film, che divoro spesso e volentieri. Osservare, più che leggere, immaginare, più che interpretare, influiscono sicuramente sul mio stile, che per certi aspetti penso possa risultare visivo e lirico.
Sarà infatti molto più probabile che io abbia pensato a David Lynch, e non a Lovecraft o Borges, nello scrivere una scena onirica, che il soffermarsi su un gesto essenziale mi abbia riportato alla mente Rossellini piuttosto che Verga, che l’avvicinarsi e allontanarsi da un dettaglio abbia più a che fare con Schlesinger che non con Gogol, che la staticità di una scena e i silenzi sappiano più di Bresson o Kaurismaki che di Murakami e così via.
Dopotutto, però, penso che nella testa qualsiasi storia, prima di diventare libro, sia un film. 
E penso anche che le immagini, come i concetti, siano il germe di qualsiasi parola.